L’aumento delle tasse ordinarie sugli affitti rilancia la cedolare secca. Se passerà il progetto di finanziare la riforma del lavoro riducendo dal 15 al 5% lo sconto forfettario dell’imponibile Irpef sui redditi di locazione, la tassa piatta – che finora è stata un mezzo flop – guadagnerà un po’ di popolarità tra i proprietari di case. Vediamo perché. Oggi, chi affitta una casa con un contratto libero «4+4», paga l’Irpef (con aliquote variabili dal 23% al 43%) sull’85% del canone pattuito, anziché sul 100%: è una riduzione automatica, che serve a tenere conto delle spese sostenute dal proprietario, ad esempio per la manutenzione dell‘immobile. Chi sceglie la cedolare, invece, paga l’aliquota del 21% sul 100% del canone. In compenso, non deve pagare né l’imposta di registro, né il bollo, né le addizionali comunali e regionali all’Irpef, ma deve rinunciare ad aggiornare il canone all’indice Istat: il che vuol dire, alla rilevazione di marzo, il 3,2% su base annua.
Tutte queste variabili condizionano il calcolo di convenienza e fanno sì che la cedolare risulti vantaggiosa per tutta la durata contrattuale solo a partire dal terzo scaglione Irpef, cioè per redditi annui superiori a 28mila euro (un simulatore è pubblicato sul sito di Casa24 Plus).
Dal 2013, però, le cose potrebbero cambiare. Se non saranno trovate altre fonti di finanziamento per la riforma del lavoro, i proprietari di case affittate dovranno rifare i calcoli. Ad esempio, con la riduzione dell’abbattimento forfettario, su un canone annuo di 6mila euro si pagheranno da 151 a 271 euro in più, ipotizzando addizionali locali medio-alte. E questo abbasserà l’asticella del reddito a partire dal quale scatta la convenienza per la tassa piatta. Il discorso interessa soprattutto i contribuenti con i redditi più bassi, ma non si tratta certo di una platea ristretta. Nel 2008, l’unico anno in cui è stato pubblicato questo dato, quasi il 60% dei titolari di abitazioni affittate ha dichiarato guadagni annui minori o uguali a 26mila euro. Probabilmente, si spiega anche così – oltre che con le complicazioni applicative – il fatto che lo Stato finora abbia incassato dalla cedolare molto meno di quanto previsto: 675 milioni di euro nel 2011, che saliranno a circa 1 miliardo con il versamento del saldo, a fronte dei 2,5 miliardi preventivati dalla relazione tecnica al decreto sul federalismo municipale.
In questo scenario si innesta l’Imu, che costerà ai proprietari dal 70 al 150% in più rispetto all’Ici versata nel 2011. Si capisce bene, allora, perché alcune delle sigle di categoria abbiano chiesto un’estensione della cedolare, che oggi, ad esempio, non può essere applicata alle case affittate dai privati alle imprese. In alternativa, invece, si potrebbe introdurre la deduzione analitica delle spese sostenute e documentate dal padrone di casa, così come accade nel Regno Unito, in Francia e in Spagna (dove però ci sono delle limitazioni e alcuni costi possono essere scontati solo al 60% dal reddito). Dopotutto, è il ragionamento, se si deve pagare sul 95% del canone, tanto vale essere tassati sul 100% e poter scalare dal reddito gli investimenti effettivamente sostenuti per la riqualificazione dell’immobile.
Gli affitti a canone concordato, invece, meritano un discorso a parte. In questo caso, il reddito ai fini Irpef, già ridotto del 15%, è ulteriormente scontato del 30%, arrivando di fatto a tassare il 59,5% del canone se l‘immobile si trova in uno dei Comuni ad alta tensione abitativa (praticamente le città e l’hinterland). Con la riduzione dell’abbattimento forfettario, verrebbe tassato il 66,5% dell’affitto, e anche in questo caso crescerebbe la convenienza della cedolare, che su questi contratti è al 19 per cento. Le tabelle in questa pagina mostrano gli effetti concreti su un contratto-tipo. Sui canoni convenzionati, però, il vero nodo è dato dall’Imu. In molte città, i contratti concordati avevano l’Ici azzerata (come a Bologna) o superscontata (come a Torino, all’1 per mille). Ora invece potranno avere al massimo l’Imu al 4 per mille, sempre che le casse comunali siano in grado di permettersi lo sconto. Nella peggiore delle ipotesi, un alloggio con una rendita catastale di 800 euro può passare da 84 euro (Ici all’1 per mille) a 1.424 euro (Imu al 10,6 per mille), ma anche lo scenario migliore è tutt’altro che leggero: l’Imu al 4 per mille costerà pur sempre più di 500 euro. A conti fatti, gli affitti calmierati finiranno presto fuori mercato, e se i proprietari sceglieranno di mantenerli sarà solo per non perdere un buon inquilino, non certo per convenienza. Ma questo non accadrà per colpa dell’Irpef, né della cedolare.
Articolo tratto da “Il Sole 24Ore” del giorno 19/04/2012